Morte, libero arbitrio ed evoluzione della coscienza – Riflessioni attorno al docufilm “La morte negata”

Una premessa

Il 25 febbraio 2024, gli amici del comitato civico “Rieti consapevole” mi hanno invitato a partecipare al dibattito successivo alla proiezione del docufilm La morte negata del regista Alessandro Amori, prodotto e distribuito dalla Playmastermovie (2024). La pellicola riporta le testimonianze dei parenti di quelle persone che sono morte in ospedale in una condizione di solitudine, a causa delle restrizioni adottate durante lo stato di allerta Covid19. Linee guida e protocolli imposti dal governo hanno impedito ai familiari di assistere i propri cari in ospedale, rendendo difficile, se non impossibile, comunicare con loro e comprendere cosa stava loro accadendo, per poi ritrovarsi a gestire un lutto molto complicato da elaborare. Data l’importanza di riflettere insieme su questi temi, la casa di produzione rende il docufilm disponibile online e organizza proiezioni gratuite. Vale la pena vederlo! Quella che segue è una riflessione personale attorno al tema del lutto, che prende spunto dal docufilm e dal mio intervento a Rieti.

 

1.      La morte come tabù

E’ importante parlare della morte ed è importante farlo collettivamente, perché la morte è un vero e proprio tabù, con cui spesso evitiamo di confrontarci. Secondo la psicolinguistica (disciplina che studia il rapporto tra linguaggio e pensiero), un tabù è definibile come qualcosa che nel linguaggio comune non viene nominato in modo diretto, ma ricorrendo ad un lungo giro di parole. Adottando questa definizione, comprendiamo che la morte è un tabù, perché, piuttosto che usare la parola “morire”, più spesso diciamo “scomparire”, “spegnersi”, “andare all’altro mondo” oppure “lasciare i propri cari”, “venire a mancare”, “esalare l’ultimo respiro” e così via.

E’ importante infrangere questo tabù chiamando la morte con il suo nome, dato che qualsiasi riflessione sull’essere umano richiede di confrontarsi con la morte. Parallelamente, non appena nominiamo la morte, ci confrontiamo con l’essenza e la natura dell’essere umano.

 

2.      Il rapporto dell’essere umano con la morte

Rispetto agli altri animali, noi esseri umani ci siamo evoluti puntando tutto sulla corteccia cerebrale, la parte del sistema nervoso che ricopre gli emisferi, quella più superficiale e filogeneticamente recente. La corteccia è il fiore all’occhiello della nostra evoluzione: rende possibili la creatività, il ragionamento e il pensiero astratto. Grazie alla corteccia abbiamo sviluppato il linguaggio, con cui evochiamo ciò che non è presente, ossia il passato e il futuro. Pensando il passato, costruiamo una memoria individuale e collettiva, che consente l’apprendimento, il tramandarsi delle conoscenze lungo le generazioni, lo sviluppo. Pensando il futuro, possiamo prevedere gli effetti delle nostre azioni e progettare il comportamento in vista di uno scopo.

Come ci spiegano i maestri della tradizione orientale, il pensiero è molto utile, ma può diventare un ostacolo al nostro benessere: se la nostra mente si abitua a vivere nel passato e nel futuro, inevitabilmente ci allontaniamo dal presente (il qui ed ora) e, potremmo aggiungere, dall’ambiente naturale. Allo stato attuale dell’evoluzione, il nostro sofisticatissimo pensiero ha contribuito a generare una frattura tra noi e la Natura. L’inesauribile desiderio di conoscere e di guardare lontano, ci ha spinto oltre i confini del Paradiso terrestre, rompendo la primigenia unione con la Natura. Resi superbi dalla nostra “intelligenza”, ci sentiamo superiori e, quindi, in diritto di assoggettare la Natura, sfruttandone le risorse umane, animali e territoriali. Tronfi, ma anche spaventati e fragili, abbiamo abbandonato la foresta primaria per rinchiuderci nelle metropoli, cercando riparo in case di cemento dove i raggi del sole e della luna non penetrano. Rispetto agli altri animali, noi esseri umani occidentali ci ritroviamo a vivere per lo più scollegati dal ciclo di vita, morte e rinascita, un processo naturale, che avrebbe potuto dare un senso più ampio alla morte individuale, alleviandone l’angoscia.

 

3.      L’angoscia di morte e la nascita della civiltà

L’angoscia di morte è un effetto collaterale del nostro pensiero, che tende a proiettarsi in avanti, dove incontra l’unica cosa certa del futuro: la morte. La conoscenza umana comporta la consapevolezza della nostra mortalità e l’angoscia di morte che ne consegue.  

La nostra condizione esistenziale è particolare: abbiamo la coscienza della morte e, allo stesso tempo, la consapevolezza di non sapere cosa succede dopo la morte del corpo fisico. La morte è il mistero dei misteri, che ci lascia soli con la fragilità di chi ha perso il senso del proprio esistere.

Una delle più antiche raffigurazioni pittoriche della morte è un affresco chiamato Il tuffatore di Paestum, unico esempio di arte funeraria della Magna Grecia, datato 470 a. C circa. Viene ritratto un uomo mentre si tuffa dall’alto delle colonne d’Ercole, che rappresentavano il confine delle terre all’epoca conosciute, simbolo del limite della conoscenza umana. La morte è un tuffo verso l’ignoto.

E’ bene fare un esempio pittorico, perché da quando noi esseri umani abbiamo memoria di noi stessi, abbiamo sempre usato l’arte per elaborare la morte e per lasciare un segno della nostra presenza sulla terra, un segno capace di sopravvivere alla morte.

Probabilmente quella che chiamiamo “civiltà” nasce proprio dal tentativo di elaborare la morte. Le più antiche testimonianze della civiltà umana sono legate al culto dei morti e ai riti funebri, che creano uno spazio collettivo in cui è possibile elaborare il lutto. Un esempio a noi vicino: dallo studio delle numerose necropoli degli Etruschi, abbiamo ricostruito i riti funebri di questo antico popolo. Gli Etruschi esponevano il defunto, facevano danze di lamenti, unzioni e offerte al morto, potevano invocare gli antenati per chiedergli di accompagnare il defunto, a cui lasciavano in dotazione oggetti personali, scorte di cibi e bevande.

Con la civiltà nascono anche le religioni, che tentano di lenire l’angoscia di morte fornendo delle spiegazioni alla morte e delle ipotesi sul dopo, sull’aldilà. Le diverse religioni sono anche un esempio storico del fatto che il potere politico può usare l’angoscia di morte per il controllo sociale: l’obbedienza alle regole di condotta funzionali al potere viene presentata come un modo per conquistarsi il proprio posto in paradiso.

4.      Elaborazione del lutto durante lo stato di allerta pandemico Covid19

Tra arte, cultura, religione e forme di governo più o meno controllanti noi esseri umani siamo arrivati fino ai nostri giorni, attraversando gli alti e i bassi della storia. Potremmo dire “Fino a qui tutto benino”, ma poi è arrivato lo stato di allerta pandemico Covid19, che ha creato un caso unico, mandando all’aria tutto ciò che potevamo associare alla parola “essere umano”. A causa delle restrizioni imposte dal governo, non abbiamo più potuto fare ricorso alle usanze e ai riti che per millenni hanno fatto di noi esseri umani una comunità, permettendoci di elaborare i lutti. I morti di cui raccontano i familiari nel docufilm La morte negata non sono stati accompagnati a morire, sono stati lasciati soli: non c’era nessuno che gli tenesse la mano e che ascoltasse le loro ultime volontà e i loro ultimi desideri, nessuno che gli dicesse parole d’amore e che li rassicurasse.

Nel docufilm, i familiari delle vittime testimoniamo di un trattamento sanitario ospedaliero disumanizzante, che nella maggioranza dei casi ha previsto il ricorso massiccio ai tranquillanti, psicofarmaci che hanno impedito alle persone di confrontarsi lucidamente con la propria condizione e con la possibilità di morire. L’imposizione forzata di determinati protocolli e trattamenti sanitari e l’uso di psicofarmaci che depauperano la volontà delle persone sono azioni molto gravi a livello ontologico, in quanto sopprimono il libero arbitrio, che è forse il bene più prezioso dell’essere umano. Il libero arbitrio è il fondamento della natura umana, una qualità che ci appartiene per legge naturale e che ci viene assegnata alla nascita come un bene prezioso: potendo scegliere impariamo a discernere tra il bene e il male e sviluppiamo la coscienza morale. La rimozione del libero arbitrio è un atto così grave da impedire l’evoluzione della coscienza individuale e collettiva, unico elemento in grado di dare uno scopo a questa nostra fragile e mortale vita terrena.

Isolate, disumanizzate e sedate, le anime di questi morti non hanno potuto accomiatarsi dalla vita. Nelle diverse culture che vedono la morte come un passaggio, questa condizione viene descritta come un vero e proprio ostacolo al trapasso: faticherebbero a lasciare la terra le anime che non vengono aiutate a realizzare che stanno morendo, quelle che non vengono accompagnate nella morte e quelle i cui familiari non elaborano il lutto. Le “anime erranti” possono rimanere letteralmente intrappolate sulla terra in una specie di limbo, senza riuscire a proseguire il loro viaggio, ossia il processo evolutivo animico. A questa rappresentazione allude nel docufilm l’attore Antonio Bilo Canella, che dà voce alla fatica di queste anime ad accettare di essere morte.

Ma non si trovano in una condizione migliore nemmeno i loro familiari, alle prese con un lutto molto difficile da elaborare: la naturale tendenza alla negazione della morte (una difesa normale nelle prime fasi di elaborazione del lutto) è stata rafforzata e protratta dal fatto di non aver potuto vedere il corpo del proprio caro defunto, come spiegano bene le colleghe psicologhe che hanno preso parte al docufilm. Riconsegnare i corpi chiusi in una bara già sigillata o inceneriti e impedire i funerali ha reso impossibile la dimensione personale e collettiva di elaborazione del lutto, su cui, come dicevamo, si fonda la cultura dell’umanità. E’ quello che ci racconta Omero nell’Iliade (Libro XXIV): il vecchio Priamo si umilia ai piedi del nemico Achille e bacia la mano di lui che ha ucciso in guerra tutti suoi figli, per pregarlo di restituirgli il corpo di Ettore, ultimo figlio della sua stirpe. Farebbe qualsiasi cosa pur di riavere il suo corpo per poterlo piangere e onorare insieme ai suoi cari. Anche Omero ci dice che un lutto non celebrato non è elaborabile.

5.      Difese collettive all’angoscia di morte

Tutti questi lutti irrisolti durante lo stato di allerta pandemico Covid19 hanno determinato non solo un trauma personale, ma un vero e proprio trauma collettivo, generando un’ombra che grava sui familiari delle vittime e su tutti noi. L’ansia, lo stress, la sensazione di non essere più al sicuro, una strisciante e non sempre palesata angoscia di morte sono campanelli d’allarme di un disagio sociale diffuso, che ora è sotto gli occhi di tutti, in primis di noi psicoterapeuti, che abbiamo assistito ad un notevole incremento delle richieste di aiuto da parte di adulti e minori. Di fronte al costante senso di pericolo, segno clinico di un disturbo post traumatico, noi tutti reagiamo difendendoci, ma le difese che adottiamo possono essere diverse.

Possiamo reagire all’angoscia di morte in modo attivo, compensando la fragilità che la morte ci fa sentire con il desiderio di potenza. Una forma tutta contemporanea di onnipotenza è quella tecnologica. Non è un caso che dopo lo stato di allerta pandemico ci sia stata un’enorme accelerazione della tecnologia e dei processi di digitalizzazione della vita: se l’essere umano viene disumanizzato sottraendogli tutte le qualità che lo rendono tale (relazionalità, libero arbitrio, spinta ad evolvere), la così detta “macchina” è sicuramente preferibile, dato che fa meno errori ed è più controllabile. Si riconosce il desiderio di potenza quando la tecnologia vuole travalicare le colonne d’Ercole che circoscrivono le possibilità della conoscenza umana. L’essere umano che non accetta la morte disconosce i suoi limiti mortali e gioca a fare Dio, manipolando il codice genetico di piante, animali e esseri umani, interferendo con i processi legati al ciclo di vita, morte e rinascita della Natura. L’onnipotenza dell’essere umano lo spinge a modificare il proprio ambiente senza tenere conto delle conseguenze, tanto che oggi ci ritroviamo a vivere in un pianeta depredato e inquinato, sempre più povero di risorse e di biodiversità.

Un’altra difesa possibile all’angoscia di morte è, all’estremo opposto, una risposta passiva, con cui chiediamo alle istituzioni una soluzione all’angoscia, che prende la forma del controllo sociale. Come un bambino che vuole le rassicurazioni della mamma, ci sentiamo al sicuro se ci viene detto cosa fare e come farlo, per cui diventiamo obbedienti e manipolabili. Siamo disposti a barattare il libero arbitrio con una pseudo sicurezza che viene dal controllo, anche se, così facendo, i nostri gradi di libertà si riducono sempre di più: le mura del castello che ci proteggono si fanno più spesse, le celle di cemento dove ci rifugiamo si restringono. Impotenti e frustrati dalla realtà, rischiamo di ritrovarci a vivere sedati dagli psicofarmaci e rinchiusi in una bolla di sicurezza virtuale, dentro alla quale simuliamo una vita parallela, che si svolge nei social, nella realtà così detta aumentata o nel metaverso.

6.      Una risposta evolutiva è possibile

Se mettiamo insieme le difese attiva e passiva all’angoscia di morte, otteniamo il mondo come lo conosciamo, ossia caratterizzato da una dinamica dominante-dominato, oppressore-oppresso che informa la storia dei popoli e la vita sociale. Per andare oltre questa dinamica, è necessario fare ciò che le difese impediscono di fare: stare nell’angoscia di morte per trasformarla. Le emozioni che ci investono hanno la potenzialità di risvegliare le nostre coscienze, come capita quando la paura fa l’effetto di uno shock: venendo meno la negazione individuale e collettiva della morte, realizziamo nel profondo la nostra mortalità e, allo stesso tempo, la preziosità della vita.

Lo stato di allerta pandemico Covid19 poteva avere questo effetto di risveglio collettivo e, forse, in un primo tempo sembrava questa la direzione possibile. Durante la prima chiusura forzata, il così detto lockdown, sul web spopolavano video di persone che, lavorando a casa, raccontavano di aver riscoperto l’importanza di un tempo dilatato, un tempo da dedicare alla cura di sé e della propria famiglia, in contrasto con i ritmi frenetici a cui la società ci ha abituato. Città, spiagge, campagne si erano scrollate di dosso la presenza umana e timidamente ricomparivano gli animali selvatici, come a riprendersi uno spazio vitale sottratto loro dalla “civiltà”: l’essere umano faceva un passo indietro e la Natura riconquistava spazio. Poteva essere una bella occasione per riflettere sull’impatto dei valori e delle abitudini sociali sul benessere degli individui e del pianeta Terra, per mettere in dubbio il mito del progresso umano a fronte della necessità di una decrescita. Insomma, poteva essere l’occasione per cambiare rotta, ma le cose hanno preso una piega diversa, perché l’angoscia di morte generata dallo stato di allerta ha raggiunto dei livelli così elevati da non rendere possibile un pensiero individuale e collettivo.

L’angoscia è stata il nostro nutrimento per mesi e mesi, alimentata dalle narrazioni dei media, dalle immagini dei reparti di terapia intensiva e dai racconti di persone morte sole in ospedale, come le vittime di cui testimonia il docufilm La morte negata. Le restrizioni imposte durante lo stato di allerta pandemico Covid19 ci hanno fatto vivere nella paura, nella solitudine, nell’isolamento e con un senso di impotenza generato dal fatto di non poter più esercitare il libero arbitrio, tutte condizioni che hanno reso l’angoscia soverchiante e non mentalizzabile. Quando non riusciamo a elaborare l’angoscia, dobbiamo ricorrere alle difese, difese attive o passive che ci permettono di allontanare le emozioni che non riusciamo a gestire.

Se, invece, vogliamo cercare una via diversa, dobbiamo stare con l’angoscia di morte e provare ad elaborarla facendo ciò che durante lo stato di allerta ci è stato impedito: fare comunità, unirci, aiutarci a vicenda, ricorrere agli strumenti che ci sono stati trasmessi dalla cultura umana (l’arte, i riti, le cerimonie), fare uso del libero arbitrio per guardarci dentro, interrogarci sulla realtà e domandarci cosa è bene per noi a livello individuale e collettivo. Accettando la morte, possiamo trasformare l’angoscia di morte in un elemento di evoluzione della coscienza. Per dare un senso alla propria vita sulla Terra, l’essere umano deve fare i conti con la propria finitezza. Mentre il desiderio di potenza legato alla negazione della morte genera la guerra, l’accettazione della morte porta la pace, riconciliandoci con i limiti che caratterizzano la vita sul nostro piano dell’esistenza, in cui ogni cosa nasce, vive e muore. In questo modo, possiamo tornare ad essere parte della Natura e riscoprire un senso di connessione profonda con l’ambiente, su cui si basa la nostra innata spiritualità. L’essere umano che accetta la morte può celebrare la vita ballando e cantando, allestendo banchetti, rappresentazioni, riti e cerimonie. Così la coscienza si espande e l’animo nostro si acquieta, ritrovando quella fiducia nella vita che ci dà coraggio e fa di noi degli esseri umani integri, centrati e non manipolabili. La collettività nasce non per controllare e addomesticare l’essere umano, ma per sostenerne l’evoluzione interiore, una spinta evolutiva naturale capace di dare un senso alla nostra breve presenza sulla terra.

Tiziana Franceschini, psicologa.

https://www.tizianafranceschini.com/

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